Home Events La Fotografia – Incontro con Gianni Pinnizzotto fondatore di “Graffiti”

La Fotografia – Incontro con Gianni Pinnizzotto fondatore di “Graffiti”

Presentazione del  libro fotografico  di Gianni Pinnizzotto:   “Racconto per immagini. Telling with images”.

La comunicazione visiva è nata con l’esigenza dell’uomo che da sempre ha sentito il bisogno di comunicare con i suoi simili. Nel corso del tempo si è via via modificata, dalla pittura spontanea dei graffiti rupestri alla vera e propria professione, dall’informazione giornalistica di fine ‘800, alla trasmissione via telefono delle fotografie degli anni ‘50 – ‘60 (prima telefoto – La Stampa Sera, 1934), al web che permette oggi, in tempo reale, di trasmettere un’infinità di dati tra cui molte immagini. L’uomo ha comunicato anche e soprattutto attraverso l’enorme capacità narrativa delle immagini. Contribuire ad una corretta comunicazione è un dovere morale e civile. È indispensabile, soprattutto oggi dato che, con i sofisticatissimi mezzi tecnologici, chiunque è in grado di inviare immediatamente notizie, filmati e ovviamente fotografie in tutto il mondo. Riuscire a districarsi tra tutte queste informazioni, alcune vere, altre presunte, molte invece totalmente false, è divenuto estremamente difficile. Prima dell’avvento dei social e degli smartphone l’informazione era delegata esclusivamente a professionisti, che rispondevano in prima persona, anche penalmente, delle notizie e delle immagini che diffondevano, controllavano le fonti, erano iscritti ad un ordine professionale dal quale venivano espulsi nel caso di divulgazioni false o inappropriate o addirittura diffamatorie. Tra questi professionisti dell’informazione un ruolo fondamentale lo hanno svolto e ancora oggi lo svolgono con puntualità, precisione e passione i fotoreporter, coloro che utilizzano la macchina fotografica al posto della penna per raccontare storie. Scriveva Susan Sontag, negli anni ‘70 nell’introduzione del libro Don McCullin, dedicato al grande reporter di guerra inglese: “nella società moderna le immagini fotografiche sono il principale strumento di accesso a realtà di cui non abbiamo esperienza diretta. Servono immagini perché una cosa diventi “vera”. Affinché una guerra, un’atrocità, un’epidemia, un cosiddetto disastro naturale diventino oggetto di vasto interesse, devono poter giungere alla gente attraverso diversi sistemi (dalla tv e internet ai quotidiani e alle riviste) in grado di diffondere le immagini fotografiche a milioni di persone. Le fotografie sconvolgenti hanno la proprietà di essere memorabili, vale a dire indimenticabili”. Quando queste fotografie sono raccolte insieme, unite tra loro in modo da creare una narrazione univoca, formano un racconto, un reportage fotografico. Certo debbono essere delle buone foto, avere attinenza al tema, comunicare in maniera autonoma, generare emozioni ed essere editate, cioè organizzate in modo che creino appunto una storia, un racconto comprensibile e coinvolgente, e a volte, se l’autore è dotato di particolare sensibilità e linguaggio, perfino poetico anche se tratta argomenti drammatici. Maestri di questa nobile “arte” del fotogiornalismo hanno avuto il migliore approdo nella famosa rivista LIFE diretta da Henry Luce, che dal 1936, data della sua prima uscita, ogni settimana conduceva per mano i suoi lettori al centro degli avvenimenti mondiali più importanti, nella vita delle persone, perfino nelle case, nei luoghi di lavoro, dove vivevano e svolgevano le proprie attività. Penso ai memorabili racconti fotografici di Robert Capa, David Chim Seymour, William Eugene Smith e a molti altri considerati i padri del Fotogiornalismo. Penso allo sbarco in Normandia di Capa e a due tra i grandi reportage di Smith: lo straordinario Spanish Village dove è presente la poetica “Veglia spagnola” o quello che viene considerato il suo ultimo lavoro, Minamata, realizzato tra il 1971 e il 1975 in Giappone per documentare e denunciare le sofferenze causate alla popolazione dall’inquinamento dell’industria Chisso Chemical, che contiene tra le altre la magica fotografia del bagno di Tomoko Uemura, una moderna “pietà” del XX secolo. “La fotografia è una voce piccola, nella migliore delle ipotesi, ma a volte, solo qualche volta, una fotografia o un gruppo di esse può attirare i nostri sensi alla consapevolezza. Molto dipende dallo spettatore; in alcuni, le fotografie possono evocare abbastanza emozione per essere un catalizzatore del pensiero. Altri, o forse molti di noi, possono essere influenzati dall’attenzione alla ragione, per trovare un modo per correggere ciò che è sbagliato e possono persino cercare una cura per una malattia. Il resto di noi può forse sentire più grande senso di comprensione e compassione per coloro le cui vite sono estranee alla nostra. La fotografia è una piccola voce. Ci credo. Se è ben concepita, a volte funziona”. In quegli stessi anni nasceva Il Mondo (1949), la risposta italiana a LIFE. Diretto magistralmente da Mario Pannunzio ha avuto come collaboratori firme della grandezza di Ennio Flaiano, Corrado Alvaro, Vitaliano Brancati ma anche Thomas Mann e George Orwell, oltre ai nostri migliori fotoreporter. Dal 1950 sulle pagine di EPOCA abbiamo potuto ammirare Giorgio Lotti, Mario De Biasi, Mauro Galligani e molti altri, attraverso i loro reportage da tutto il mondo. Con l’ingresso della televisione, nel 1954, ogni casa è stata inondata continuamente da news e immagini; ancor più oggi, con internet, presente anche in ogni cellulare. Siamo collegati ad una informazione mondiale in tempo reale. Si potrebbe affermare che il reportage fotografico se ancora non è definitivamente morto stia vivendo il suo ultimo periodo. Non credo. Penso che il racconto fotografico così come fu pensato a fine ‘800, quando è iniziato, oggi abbia ancora molto da dire e una sua precisa collocazione nel mondo dell’informazione. Possa essere di grande stimolo soprattutto per chi ha l’esigenza e la volontà di approfondire una notizia attraverso media differenti, per valutarla da punti di vista diversi, per documentarsi in modo più ampio e magari confermare o smentire una propria opinione. È anche per questa ragione che da molti anni mi sono dedicato all’insegnamento del racconto per immagini, cercando di mettere a disposizione dei giovani tutta l’esperienza acquisita in mezzo secolo di professione, legando i ricordi, le tecniche, gli aneddoti del passato a soluzioni attuali, cercando di mostrare come non solo lo strumento tecnico è cambiato ma anche e soprattutto il linguaggio. Tentando di infondere nei miei allievi la difficile arte della sintesi nella scelta delle fotografie, mostrando loro come editarle: con quale aprire il servizio e perché, con quale concludere il racconto, quali utilizzare come raccordo tra parti differenti della narrazione. E inoltre mostrando loro che è proprio l’evoluzione dell’estetica dell’immagine, più che della tecnica, che ha determinato in Italia la nascita di una nuova generazione di fotogiornalisti, oggi affermati professionisti, come Alex Majoli, Paolo Pellegrin, Francesco Zizola e molti altri. L’idea di un reportage fotografico può nascere dentro di noi improvvisamente, inaspettata, o nel caso di un professionista, venire commissionata e concordata nei minimi particolari. Può emergere forte e distinta, dirompente tra le righe di un articolo, tra le pagine di un giornale o di un libro, oggi più facilmente, può essere generata navigando nel web. Può nascere camminando tra la gente in un quartiere di una grande città, come materializzarsi attraversando spazi sconfinati e disabitati. Può riferirsi alla terra e alle sue bellezze naturali, motivazione che ha reso possibile nel 1888 la nascita di magazine come il National Geographic. Può essere un racconto antropologico, etnico e sociale, che riguardi vita, usi, costumi, culture a noi lontane, può essere un racconto di viaggio per scoprire una città d’arte, una capitale austera o più semplicemente un luogo esotico dove trascorrere un periodo di vacanza. Può essere un racconto di guerra, una delle innumerevoli che coinvolgono intere nazioni e costantemente, incessantemente, distruggono la vita di centinaia di migliaia di persone, che da un giorno all’altro vedono il loro territorio devastato da bombe a causa di interessi che con le loro vite c’entrano poco, e per questo sono costretti a fuggire, a mettersi in cammino per trovare rifugio altrove. Possono essere racconti su calamità naturali, carestie, siccità, inondazioni, terremoti, oggi presenti anche in territori resi più fragili dal sistematico sfruttamento dell’uomo sulla natura. I reportage, tutti a carattere sociale, presenti nelle pagine successive, molto diversi tra loro per l’idea iniziale e per le difficoltà tecniche e logistico – organizzative, sono legati dalle stesse motivazioni, dalle relazioni umane che hanno generato, e dalla scelta estetica del bianco e nero, il linguaggio fotografico a me più vicino.

GIANNI PINNIZZOTTO – Fotoreporter dal 1970, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dal 1984, ha unito fin dall’inizio della sua attività l’interesse per il reportage e quello per i viaggi. Ha collaborato con i maggiori quotidiani italiani (La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Messaggero, L’Unità, Paese Sera, il Tempo, Il Manifesto, ecc.), con importanti settimanali italiani (L’Europeo, L’Espresso, Panorama, Famiglia Cristiana, Rinascita, ecc.), con periodici specializzati nel settore della Difesa (Defence Today, Informazioni della Difesa, Flap, Quadrante) e con vari magazine internazionali (tra i quali TIME-LIFE). Ha documentato i più significativi momenti della nostra storia e ha ripreso le personalità di maggiore rilievo italiane tra cui sei Presidenti della Repubblica italiana, quattro Papi, vari Presidenti di Camera e Senato, ministri, politici (Giovanni Agnelli, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Silvio Berlusconi, Carlo Azeglio Ciampi, Bettino Craxi, Francesco Cossiga, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Carlo De Benedetti, Nilde Iotti, Amintore Fanfani, Giovanni Leone, Aldo Moro, Pietro Nenni, Giorgio Napolitano, Marco Pannella, Sandro Pertini, Leopoldo Battista Pirelli, Sergio Pirinfarina, Romano Prodi, Giuseppe Saragat, Oscar Luigi Scalfaro, Leonardo Sciascia) uomini di cultura e spettacolo (tra i quali Dario Fo, Allen Ginsberg, Natalia Ginzburg, Alberto Moravia ecc.) e importanti protagonisti internazionali (Jimmy Carter, Ronald Reagan, Francois Mitterand, Jacques Cirach, Shimon Peres, Helmut Kohl, Tenzin Gyatso il XIV Dalai Lama, Madre Teresa di Calcutta, la Regina Elisabetta II, i regnanti di Spagna). Importante la collaborazione con le Istituzioni, tra cui la Presidenza della Repubblica, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ambasciate e Consolati, la Regione Lazio, Comuni, con enti pubblici e privati quali ALITALIA e SACE e con moltissime Associazioni tra cui la Caritas di Monsignor Luigi Di Liegro, le ACLI, l’ARCI, l’Operazione Mato Grosso, Scuole e Università, il CIOFS fp Lazio, l’AMNIL e con gli Istituti di Cultura Italiano all’Estero (Argentina, Brasile, Perù, Spagna). Tra i primi reportage, il terremoto del Friuli nel 1976, il rapimento Moro in Via Mario Fani nel 1978, l’insediamento del Parlamento Europeo a Strasburgo e il colpo di Stato militare in Turchia nel 1979, il terremoto dell’Irpinia nel 1980, l’attentato a Giovanni Paolo II nel 1981. Numerosissimi i reportage sulle condizioni di vita in luoghi colpiti dalla guerra, tra cui l’Albania al seguito dell’Esercito Italiano, Ex-Jugoslavia, la Somalia con l’Aeronautica Militare. Dal 1990 segue costantemente sul territorio il conflitto israelo-palestinese, fino a realizzare un’ampia documentazione fotografica.

Appassionato di musica jazz e di cinema italiano ha fotografato i maggiori musicisti del ‘900, (Chet Baker, Ray Charles, Ornette Coleman, Miles Davis, B.B. King, McCoy Tyner, ecc.) e i più grandi e acclamati maestri, registi e attori italiani (Dario Argento, Pupi Avati, Bernardo Bertolucci, Liliana Cavani, Eduardo De Filippo, Marco Ferreri, Alberto Lattuada, Vittorio Gassman, Nanni Loy, Mario Monicelli, Giuliano Montaldo, Ennio Morricone, Michele Placido, Gigi Proietti, Ettore Scola, Alberto Sordi, i Fratelli Taviani, Carlo Verdone, Monica Vitti, Lina Wertmüller, ecc.). Numerose le mostre fotografiche in Italia e all’estero (Barcellona, Buenos Aires, Gerusalemme, L’Avana, Lima, Parigi, San Paolo, ecc.). Ventennale la collaborazione con il Museo delle Civiltà di Roma – Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”. Lo stile fotografico che maggiormente lo rappresenta è il reportage antropologico in grado di mostrare, attraverso l’utilizzo di un proprio linguaggio estetico, spesso con l’uso del bianco e nero, le condizioni di vita di popolazioni colpite da guerre, devastazioni, privazioni, causate dall’uomo o dalla natura e documentando la reazione delle stesse comunità umane a quanto subito. Nel 1980 ha fondato l’Agenzia Fotogiornalistica Graffiti Press e successivamente la Scuola Permanente di Fotografia, l’Associazione e la Casa Editrice Graffiti. Nel corso degli anni, insieme alla sua attività di fotogiornalista, ha sviluppato il desiderio di trasmettere la sua passione e l‘esperienza professionale acquisita. Una vocazione che lo ha condotto a dedicarsi sempre più all’insegnamento, sviluppando e accrescendo un naturale talento che ha via via perfezionato. I suoi corsi e i suoi master di fotografia hanno formato negli anni più di cinquemila allievi, alcuni dei quali oggi stimati professionisti. L’archivio di Gianni Pinnizzotto è composto da centinaia di migliaia di immagini analogiche e digitali, tra le quali molte ancora inedite.

La Graffiti è stata fondata nel 1980 da Gianni Pinnizzotto con lo scopo di promuovere le arti visive e in particolare la fotografia. Associazione – Scuola di Fotografia Da oltre trent’anni anni organizza corsi e master di vario livello, seminari e workshop per la formazione di fotografi dilettanti, professionisti, appassionati e futuri fotogiornalisti. Le lezioni, i seminari e i workshop sono tenuti da noti fotoreporter, insegnanti universitari specializzati nel settore della comunicazione visiva, esperti di tecniche di sviluppo, postproduzione e stampa, giornalisti, inviati speciali, responsabili culturali. La Graffiti affianca la didattica con escursioni fotografiche e reportage sia in Italia che all’estero, offrendo a chi partecipa la possibilità di unire alla passione per la fotografia quella del viaggio. Dal 2011 è stata istituita la prima Borsa di Studio intitolata al grande Fotoreporter Rolando Fava e dedicata al reportage sociale, con la formula innovativa di un unico giurato, che ha coinvolto il fotoreporter dell’Agenzia Magnum Paolo Pellegrin e il Maestro Gianni Berengo Gardin. Numerose le mostre che sono state allestite in Italia e all’estero: Betlemme, Gerusalemme, L’Avana, Parigi, Buenos Aires, Barcellona, Lima, San Paolo – in collaborazione con i rispettivi Istituti Italiani di Cultura. Da anni è attiva la collaborazione con il prestigioso Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini” di Roma, presso il quale sono state esposte, tra le altre, le mostre: “Lavoro e immigrazione in positivo”, “INDIA – Impatti visivi”, “Uno sguardo sulle strade dell’Asia”, “Jazz – Black Music”, “Kumbh Mela – Il viaggio dell’Anima”, “Perù – tan lejos, tan cerca”, “Unusual Visions”, “IMAGO”, “Roma – Tra luci e ombre”, “COVID19”. Tutte le immagini sono state acquisite dal fondo fotografico del Museo. Preziosa la collaborazione on La Feltrinelli di Roma e Napoli dove sono stati presentati tutti i libri editi dalla Graffiti ed esposte numerose mostre.

BRIVIDI D’INDIA Il gelo dell’anima

Nel 2003 ero tornato in India per realizzare un reportage sul Kalachakra (dal sanscrito “Kala” – Tempo e “Chakra” – Ruota), un gigantesco rituale di iniziazione per promuovere l’armonia e la pace nel mondo, presieduto dal Dalai Lama e rivolto ad una numerosissima folla di fedeli, molti dei quali stranieri. Il rito si svolgeva nello stato indiano del Bihar, a Bodh Gayā, la città che ospita il Mahābodhi Temple che, a sua volta, custodisce l’albero sotto il quale Siddhārtha Gautama, il Buddha, raggiunse l’illuminazione. In quei giorni, in occasione di questa importante cerimonia, la città era divenuta il centro mondiale del buddismo. Questa la motivazione che mi aveva condotto in quel luogo. Dall’Italia, dopo aver presentato le relative quanto indispensabili credenziali, mi ero fatto accreditare presso il Dipartimento Tibetano d’Informazione e Relazioni Internazionali, per ottenere il pass necessario per seguire da vicino tutti i riti e le cerimonie, compresa la creazione del Mandala (disegno simbolico utilizzato per rituali sacri e come strumento di meditazione) e la sua relativa distruzione alla conclusione dell’evento. Il Bihar è uno stato dell’India orientale, molto povero, prevalentemente agricolo e poco industrializzato, il terzo per popolazione. In un censimento fatto dal governo indiano nel 2001 risultava abitato da circa ottantadue milioni di persone, e nel 2011 da centocinque milioni. Nel 2004 The Economist affermava che il Bihar è sinonimo dell’India più arretrata. Nel 2005 la Banca Mondiale sosteneva che più del 40% della popolazione viveva in uno stato di povertà persistente. Bodh Gayā, città indù e importante snodo ferroviario, è anche uno dei siti più sacri del buddismo con Lumbinī, Sarnath e Kushinagar. Ha una storia buddista che risale al VI secolo a.C. In quei giorni un inaspettato inasprirsi delle condizioni atmosferiche, un’anomala ondata di freddo intenso colpiva l’India, causando numerose vittime soprattutto tra la popolazione più povera, quella che normalmente vive sulle strade e che impreparata e indifesa non aveva alcun mezzo per fronteggiare il grande gelo. Sembrava non ci potesse essere riparo, soprattutto tra i più fragili. Entrava dentro piano piano. La gente che incontravo, avvolta nei poveri abiti e nelle coperte per tentare di proteggersi, manifestava soprattutto stupore. Nessuno ricordava un inverno così freddo negli ultimi settanta anni. È stato proprio questo stupore che avvertivo negli sguardi profondi e lontani delle persone che mi ha colpito a tal punto da decidere di realizzare il reportage che poi ho chiamato “Brividi d’India – il gelo dell’anima”. Sono quegli sguardi, quei volti che ho voluto riprendere.

Fotografie in bianco e nero, ritratti di uomini, donne, anziani, bambini. Statuari e immobili. Volevo che il loro stupore venisse registrato dall’argento delle mie pellicole per essere poi restituito, una volta sviluppati i rulli e stampate le foto, con la medesima forza espressiva. Perché ciò avvenisse e per dimostrare a quelle persone la mia solidarietà e condivisione del gelo avevo scelto di non alloggiare in albergo ma presso una scuola, che non era dotata né di acqua calda per lavarsi né tantomeno di vetri alle finestre. Mi sono avvicinato fisicamente sempre di più, fino ad essere quasi a contatto con loro, scegliendo di fotografare quasi esclusivamente con un l’obiettivo grandangolare 24 mm e premendo il pulsante di scatto dopo aver ottenuto il loro sguardo in macchina. Ciò ha portato alla realizzazione di immagini potenti, dalla forza espressiva amplificata dalla composizione dinamica, sempre cercata negli attimi precedenti allo scatto. Le fotografie, tutte scattate a luce ambiente, a mano libera sia di giorno che di notte, sia in interni che in esterni, sono state realizzate non solo a Bodh Gayā, nel Mahābodhi Temple e nei suoi dintorni, dove in quei giorni così particolari si era riunita una vasta quanto varia umanità formata da monaci, indiani e stranieri, mendicati, venditori ambulanti, curiosi ma anche all’interno di Gayā Junction, la stazione ferroviaria nella vicina città di Gayā, importantissima fermata della direttrice Delhi-Calcutta. Pochissimi sono i treni che non fermano a Gayā Junction. Questo la rende pullulante di una moltitudine di persone a tutte le ore, anche di notte. Molte immagini sono state scattate proprio all’interno della stazione a causa del ritardo del treno che avrei dovuto prendere per Varanasi. Ritardo che poi si è protratto per circa ventiquattro ore. Oggi la stazione ospita una sala d’attesa, un impianto telematico per le prenotazioni, una pensione, una caffetteria, un bookshop. Nel 2003 tutto ciò non esisteva. I viaggiatori in attesa si affollavano davanti al tabellone degli orari per controllare il ritardo che andava aumentando di due ore in due ore man mano che il tempo trascorreva, o dormivano per terra. Un solo e piccolo luogo di ristoro sul lato opposto della piazza, di fronte all’ingresso principale della stazione. Contrariamente a quanto sarebbe successo in Italia, il ritardo non ha prodotto né agitazione né proteste tra le persone in attesa, ha invece consentito a me ore di lavoro, di conoscenza e di scatti inaspettati. Imparare a cogliere positivamente avvenimenti che apparentemente sembrano totalmente negativi è secondo me una delle qualità indispensabili che deve possedere un buon reporter. All’arrivo del treno ecco materializzarsi una folla multicolore di venditori ambulanti. Proponevano cibo e acqua, giornali e riviste per il viaggio, ma tra le tante mercanzie mi incuriosivano i venditori di catene e lucchetti, non capivo a cosa potessero servire. Poi ho compreso il loro prezioso utilizzo: proteggere il bagaglio da un più che probabile furto. Nonostante i posti nelle cuccette fossero assegnati, una moltitudine di persone si accalcava per salire, e con loro anche molti dei venditori tentavano di introdursi sul treno per continuare il loro commercio. Il vagone non aveva nessun tipo di divisori e le “cuccette” per riposare durante la notte (almeno così era scritto sul biglietto!) consistevano semplicemente in tavole di legno sulle quali sdraiarsi dopo aver incatenato ad una trave tutto il bagaglio e una semplice logora tenda per ottenere un po’ di intimità. Un acre odore di urina arrivava a ondate mentre topi, scarafaggi e altri animali non ben identificati viaggiavano con noi, svicolando a terra, tra i bagagli e sulle pareti. Al classico fischio del capostazione il treno cigolando piano piano prendeva con fatica velocità e, mentre ci lasciavamo alle spalle Gayā, mi proiettavo già con il pensiero alla tappa successiva: Varanasi la più importante città santa dell’India. L’ultima parte delle fotografie di questo reportage racconta questo straordinario microcosmo, unico al mondo, particolarissimo per la sua struttura architettonica, ma soprattutto perché Varanasi è conosciuta come la città dove vanno a morire gli indiani. Le cremazioni sono un rituale antichissimo che ancora oggi viene praticato, immutato sia nella fase di preparazione che in quella di cremazione, moltiplicate in quei giorni a causa del grande freddo. Agli occhi di un occidentale, magari un turista dotato solo di uno sguardo superficiale, ciò che potrebbe apparire un rito macabro è semplicemente la millenaria tradizione funebre della cultura induista.

Il rituale viene effettuato in appositi ghat, scalini che consentono l’accesso diretto al Gange, il fiume sacro, nel quale a cremazione avvenuta le ceneri vengono sparse. In continuazione arrivano salme da cremare trasportate a spalla per l’ultimo viaggio, barbieri intenti a rasare il capo dei parenti maschi più prossimi al defunto, addetti alla preparazione delle pire e, non è raro vedere anche dei bambini intenti a ripulire gli scalini del ghat dai residui di cenere. Tutti attraversati dal gelo di quei giorni. Fumo delle pire, incenso, mucche che osservano. C’è ovviamente, come indotto, anche una fiorente industria del legno, ma non tutti gli indiani possono permettersi un quantitativo sufficiente per farsi cremare. Per i più poveri c’è un crematorio elettrico e del personale a disposizione. Questa città, veramente unica al mondo, così affascinante, può essere accogliente o respingente, dipende solo dallo stato mentale di chi l’attraversa e dalla predisposizione a comprendere le diverse culture e le tradizioni che i popoli della terra hanno sviluppato nel corso dei secoli e continuano a praticare anche se molto lontane dalle nostre. Tutte le immagini sono state scattate con pellicole ad alta sensibilità, 400 ISO, alcune delle quali “tirate”, come si usa dire in gergo, fino a 3200 ISO. Queste immagini fondono in una alchimia perfettamente dosata la particolare grana generata dai sali d’argento con la straordinaria bellezza di quei volti, con i loro sguardi distanti e intensi, le loro espressioni segnate e scolpite dalle rughe, in alcuni casi quasi centenarie, creando nelle stampe un pathos che ancora oggi la fotografia digitale a mio parere non ha raggiunto.

 LO SGUARDO OPPOSTO Cusco – Perù Ospedale Regionale “Antonio Lorena”

Nel 2011 sono stato invitato dall’Istituto Italiano di Cultura di Lima per esporre una mia mostra. Nell’organizzare il viaggioperò, data l’opportunità che mi era stata offerta, e come mia consuetudine, avevo pensato di visitare le bellezze naturali e archeologiche del Perù. Ma ancora più importante avevo preso contatti per documentare l’organizzazione italiana Operazione Mato Grosso fondata negli anni settanta da Padre Ugo de Censi, un missionario salesiano, che oggi grazie anche al lavoro di numerosi volontari italiani è molto attiva e capillare in Perù. Durante la prima parte del viaggio, arrivato a Cusco per poi proseguire verso Machu Picchu, avevo notato che la breve strada che separa l’aeroporto dal centro della città era piena di cliniche realizzate in palazzine accoglienti e ben tenute. Conosciuta come l’antica capitale del regno Inca, la cittadina di Cusco, oltre ad essere nota per i suoi monumenti, il Coricancha, la Cattedrale, la Piazza d’Armi, ecc., ospita infatti diverse cliniche private per quei turisti che, partiti da Lima situata sul livello del mare arrivano in breve tempo, spesso in aereo, a 3400 mt. Senza essersi sottoposti ad una adeguata e progressiva ambientazione, scoprono di soffrire del così detto mal d’aria, la mancanza di ossigeno nel sangue e sono costretti a un precipitoso ricovero proprio in queste cliniche specializzate, dove il pagamento è solamente in valuta estera. Cliniche ovviamente non frequentate dalla popolazione locale. L’idea dello sguardo opposto mi è nata allora: “Andiamo a vedere come è la normale sanità a Cusco, quella ordinaria per gli abitanti della città e dell’intera regione?” Ho quindi rivolto il mio obiettivo verso l’ospedale pubblico più importante della zona, l’Ospedale Regionale “Antonio Lorena”. Dopo aver cercato un contatto che mi consentisse di arrivare alla Direttrice Sanitaria e ottenuto il suo assenso alla realizzazione del reportage, ho iniziato il lavoro fotografico. Nei padiglioni che via via visitavo ho potuto incontrare e conoscere medici, infermieri e ammalati e riscontrare pulizia e grande umanità. L’ospedale, palesemente anch’esso bisognoso di cure, festeggiava in quei giorni settantacinque anni di attività, e inaugurava l’inizio di una completa opera di ristrutturazione. La struttura ospedaliera, situata non lontano dal centro della città, si presentava protetta da un muro di cinta, formata da vari edifici, ciascuno di un solo piano, separati tra loro da aiuole fiorite e ben tenute, dove parenti e pazienti in via di guarigione si intrattenevano per conversare e rilassarsi. All’interno, illuminati da una potentissima luce naturale che solo a quelle altitudini si può avere, contrastatissima e tagliata proprio come una lama di coltello, apparivano e scomparivano alla mia vistai lunghi corridoi, le camerate, le stanze e i pazienti. Tutto ciò che la luce colpiva emergeva imponente dall’oscurità più profonda, tutto ciò che era in ombra era buio nero come la pece.

Sono innamorato di questa luce e della sua durezza. Credo che aiuti ad esprimere meglio la vita delle persone che amo fotografare. Persone che vivono per tutta la vita in una specie di cono d’ombra, nessuno li vede, pochi si occupano di loro. Ovviamente non mi riferisco solo ai ricoverati di quell’ospedale, né ai peruviani in genere, ma a tutta quella popolazione del mondo che vive una vita ai margini, che non interessa a nessuno, persone che non hanno riflettori che li illuminano ma che meriterebbero ugualmente di vivere dignitosamente e in pace con gli altri. Dopo una breve riunione preparatoria con i medici e gli infermieri di turno che da li a poco mi avrebbero visto con loro tra i letti dei pazienti e dopo aver indossato camice e mascherina che mi erano stati dati ho iniziato il lavoro. Lunghi corridoi con un passaggio centrale formavano l’asse principale dell’interno. Ai lati semplici tende e scritte dividevano i vari reparti, Urologia, Chirurgia Generale, Medicina, Maternità. Sopra i letti, nello spazio ricavato tra una tenda e l’altra incollati sopra le maioliche bianche, risaltava un’immagine della Madonna con bambino o un Cristo, il numero del letto e il nome del paziente con la data di ricovero, il tutto scritto a mano. Tanti Felipe, Porfidio, Jose, Serapio, Eduardo, Dolores, Vanessa, Vilma, Paulina, Maria, Sergia, stesi nei letti spesso circondati da parenti anziani, giovani e bambini in visita. Tutto nella semplicità. Come credo succeda in ogni ospedale del mondo, il reparto più sereno è quello dedicato alla maternità, ai bambini in arrivo o appena nati. Così come penso che il reparto più triste sia quello dedicato ad ospitare i bambini affetti da patologie gravi come la leucemia. Le pareti colorate, i pupazzi di peluche, uno spazio giochi, un televisore che trasmetteva continuamente cartoni animati non riuscivano ad alleggerire la tensione e quel senso di angoscia e di impotenza che immediatamente si genera quando si entra in quei reparti. La tristezza stampata su quei volti sembrava indelebile. Mi era già successo a Cuba molti anni prima, nel 1990, visitando l’Ospedale Pediatrico dell’Avana, dove erano stati ospedalizzati gratuitamente, insieme con i genitori, i bambini di Chernobyl, per essere sottoposti ad adeguate cure il cui effetto poteva essere favorito da un clima decisamente migliore. Il reportage sull’Ospedale Regionale “Antonio Lorena” fa parte di un mio più ampio progetto di documentazione della vita quotidiana della gente comune. Ciò che spesso accade accanto a noi aldilà di un muro di cinta che ne cela la vista, ma che dovrebbe far parte di tutti noi, avviene in qualsiasi momento proprio mentre siamo occupati a prendere un autobus affollato, a correre al lavoro, a cercare un taxi, mentre la vita ci scorre troppo veloce davanti agli occhi.

HIV – Wat Phra Baht Nam Phu Thailandia

Il reportage nato da una breve notizia, progettato e pianificato da lontano, realizzato a diecimila chilometri di distanza La Thailandia negli anni 2000 era uno dei paesi al mondo con il più alto tasso di malati di AIDS. La notizia che anche un monastero buddista, situato in una foresta a circa centosessanta chilometri dalla capitale Bangkok, fosse stato adibito ad ospedale mi ha subito interessato. Iniziai a cercare informazioni attraverso internet, così con uno scambio di e-mail, nelle quali formulai al mio interlocutore le fatidiche domande alle quali un reporter deve dare una risposta, Who – Chi? – What – Che Cosa? – When – Quando? – Where – Dove? – Why – Perché?, scoprii alcune cose che mi fecero prendere la decisione definitiva di andare personalmente a vedere e a realizzare il reportage. Nel giornalismo il lavoro inizia con la ricerca delle risposte più convincenti a queste semplici ma molto dirette ed efficaci domande. Costituiscono la radice della notizia e di regola andrebbero, almeno alcune se non tutte, inserite nella prima parte dell’articolo o del reportage. Debbono infatti fornire al lettore i dati essenziali in maniera chiara e concisa in grado di farlo appassionare al racconto e quindi di farlo proseguire nella lettura o nella visione delle immagini successive. L’idea di accogliere malati terminali di HIV era stata del monaco buddista Alongkot Dikkapanyo. Aveva iniziato la sua missione accogliendo due malati e nel giro di pochi anni il suo monastero era diventato un ospedale a tutti gli effetti. Tra i malati c’erano anche giovani monaci buddisti che, venni a sapere dopo, avevano contratto la malattia prima di prendere i voti. Tutte le informazioni mi vennero fornite dal responsabile del centro, Michael Bassano, un missionario cattolico americano. La Thailandia era ed è considerata un paradiso per il turismo sessuale e per questa ragione moltissimi giovani uomini e giovani donne hanno contratto la malattia. Michael Bassano mi definiva il quadro della situazione in maniera molto dettagliata, da esperto, da chi è operativo sul campo. C’era stato un periodo nel quale circa cento ragazzi morivano a Wat Phra Baht Nam Phu, questo il nome del monastero-ospedale, ogni settimana mentre al momento dello scambio delle nostre e-mail, grazie alla migliore qualità dei farmaci il numero dei morti a settimana si era ridotto drasticamente. Circa quattro. Così andai a vedere con i miei occhi. Dieci ore di volo diretto Roma Bangkok. Tramite internet avevo trovato un piccolo albergo in centro e mi ero informato che dalla stazione nord degli autobus extraurbani ogni ora ne partiva uno per la provincia di Lopburi, poi circa 12/15 km per arrivare a destinazione, ma non ero riuscito a sapere se una volta arrivato al villaggio più vicino avrei trovato un mezzo di qualsiasi tipo per addentrarmi nella foresta e giungere al Monastero. Non ce ne fu bisogno. Uscito dall’albergo all’alba, volevo cercare di prendere l’autobus delle sei, avevo calcolato almeno due ore di viaggio per arrivare e due ore per tornare, in mezzo l‘incognita: come arrivare a destinazione, in quanto tempo e poi tornare per prendere l’ultimo autobus per Bangkok. Fermai un taxi per farmi portare alla stazione nord degli autobus. L’autista partì ma come spesso accade cominciò a chiedermi perché andavo a Lopburi, a Wat Phra Baht Nam Phu, a fare cosa, ero un giornalista? Alle mie risposte seguì una breve pausa. “Ti porto io” fu la sua risposta. Ecco ciò che non ti aspetti e che spiazza tutti i programmi che avevi con fatica organizzato. Certo mi avrebbe semplificato la vita e accorciando i tempi, mi avrebbe permesso di lavorare al reportage nel monastero per più tempo. Dentro di me ero combattuto ma non troppo. I rischi erano calcolati, era un tassista regolare con licenza in vista, ma proprio per questo pensai che mi avrebbe chiesto una cifra che non mi sarei potuto permettere, avevo come sempre un budget limitato e lui sarebbe dovuto rimanere con me praticamente tutto il giorno. “Sette dollari” fu la risposta e poi aggiunse “più la benzina e il pranzo sulla strada per mangiare qualcosa” e ancora “poi al ritorno ci fermiamo un quarto d’ora in un negozio per turisti, anche se non compri nulla loro mi danno una mancia”. La cifra mi sembrò decisamente bassa, quasi ridicola, e mi tornarono dei sospetti. Decisi di rischiare. Era un segnale troppo forte, bisognava cogliere al volo l’occasione. Il viaggio si svolse secondo i piani, ci fermammo a fare benzina, dove mangiammo cibo thai. Mentre proseguimmo verso Lopburi ricontrollai per l’ennesima volta l’attrezzatura professionale. Era da un po’ che avevo affiancato alla mia classica attrezzatura analogica (due corpi macchina Reflex della Nikon, quattro ottiche di cui due grandangolari, un normale, un piccolo tele e numerose pellicole in bianco nero) anche una reflex digitale con due zoom, batterie e schede di memoria. La sera prima mi ero messo in contatto telefonico con Michael Bassano concordando definitivamente l’appuntamento per l’indomani. Cosa mi avrebbe mostrato e cosa avrei potuto fotografare lo avremmo stabilito al momento in base alla situazione. Mi accolse con un grande sorriso ed esordì dicendo che ero fortunato perché quel giorno, nel primo pomeriggio avrei potuto assistere ad un evento straordinario. Non mi disse subito di cosa si trattasse, mi lasciò nel dubbio. Per prima cosa mi mostrò la struttura. In realtà non era un unico edificio ma tanti padiglioni separati nella foresta, distanti poche decine di metri uno dall’altro. Entrammo nel primo che fungeva da accettazione, lì ricevevano e smistavano i malati nei vari reparti, mi presentò al personale in servizio, medici e infermieri, e disse loro di lasciarmi libero di lavorare. Si scusò perché era molto impegnato nella preparazione dell’evento straordinario di cui mi aveva accennato e mi diede il numero del padiglione dove ci saremmo incontrati nel primo pomeriggio. Prima di congedarmi volle però mostrarmi un padiglione che riteneva molto importante. Era il museo dell’ospedale dove venivano conservate e mostrate alcune “mummie” di giovani e bambini morti e imbalsamati, che avevano donato i loro corpi per essere mostrati soprattutto ai ragazzi delle scuole medie, come avrei potuto constatare da lì a poco, che venivano in gita scolastica e visitavano i reparti dove erano i malati, per poi concludere il tour nel museo delle mummie. Solo che queste non erano mummie egizie di 3000 anni ma i poveri resti di uomini, donne e bambini devastati e uccisi dalla ferocia dell’HIV.

Era un tentativo del governo, mi disse, di usare questa visita come deterrente tra i giovani nell’età critica della pubertà. Un monito affinché usassero il proprio corpo responsabilmente, non facendosi attrarre da facili guadagni. Per alcune ore mi aggirai nei padiglioni, tra i letti, cercando tra i malati, in quei volti scavati dalla malattia un cenno di assenso alla mia presenza, alla presenza ingombrante delle mie macchine fotografiche, alla presenza di un operatore dell’informazione straniero che era lì per documentare il loro dramma. Con alcuni di loro riuscii perfino a scambiare poche parole e qualche espressione di intesa. Mi colpì Michael Bassano, che nel frattempo era tornato, per la sua dedizione. Da direttore e responsabile di quell’ospedale era tra i letti a portare conforto offrendo ai malati, arsi dalla malattia e dalla forte umidità, tipica di quei luoghi, anche solo un bicchiere colmo di acqua, ghiaccio e sciroppo di menta. Poco dopo arrivarono dei volontari con generi di prima necessità che distribuirono ai malati, trascorrendo un po’ di tempo con loro. Infine arrivarono due grandi bus turistici dai quali scesero molti adolescenti che, come mi aveva precedentemente anticipato Michael Bassano, iniziarono il tour all’interno dei padiglioni. Nel pomeriggio come d’accordo mi recai nel “padiglione numero 9” dove erano riunite alcune persone per assistere alla cerimonia. Tra loro ritrovai uno dei malati, che avevo già conosciuto e fotografato, accompagnato da un’infermiera. Un gruppo di monaci buddisti erano seduti uno accanto all’altro come se stessero per iniziare un rito. Michael Bassano mi introdusse spiegandomi finalmente a cosa avrei assistito. Era un funerale, fin qui nulla di particolare visto che ero a conoscenza che mediamente quattro ragazzi a settimana morivano in quel luogo. La particolarità che rendeva Michael molto felice era che in questo caso erano presenti anche i familiari, una sorella, un fratello e vari altri congiunti del defunto. Mi disse che per i tailandesi è un disonore avere un parente malato di HIV e quindi non partecipano quasi mai ai funerali, anzi spesso lasciano i loro malati fuori dall’ospedale e spariscono.

C’era del cibo nei piatti in terra, tutti erano seduti e l’atmosfera era nonostante tutto serena. Un lungo filo di cotone bianco collegava “l’altare”, dove i monaci recitavano le loro preghiere, con l’esterno del padiglione dove era posizionata la bara con il giovane ragazzo morto. Il viso tumefatto, gli occhi bendati e quella cassa spoglia contrastavano con il piatto pieno di cibo tradizionale sistemato su uno sgabello lì accanto. Era parte del rituale buddista come anche le offerte di f iori di legno e frutta. Michael Bassano era dentro e pregava insieme ai parenti di fronte ai monaci che di lì a poco avrebbero spezzato quel filo e dato così il via all’ultima fase del funerale: la cremazione. Solo allora notai che accanto alla bara si trovava un enorme forno crematorio elettrico. Michael aiutò il giovane malato a dare l’ultimo saluto all’amico morto e lo lasciò allontanarsi con l’infermiera. Sarebbe rientrato nel suo padiglione senza assistere all’ultima parte, la più drammatica. Sempre Michael aiutato da alcuni parenti posizionò il corpo sul coperchio di legno e lo adagiò all’interno del forno, la bara sarebbe stata riutilizzata. Fu il fratello a premere un bottone rosso e immediatamente con fragore una fiamma si accese. Mentre mi allontanavo Michael Bassano mi spiegò che in due ore quel corpo sarebbe divenuto cenere e prima di congedarmi mi chiese di vedere un’ultima cosa. In un luogo non molto lontano una statua di Buddha custodiva ai suoi piedi seimila sacchetti, con sopra impresso nome, anni e date, contenenti le ceneri dei tanti ragazzi morti, che nessuno aveva mai richiesto. Sulla strada del ritorno, mentre cominciava ad imbrunire, rielaborando le scene appena vissute, e ripensando con gratitudine e stima a Michael Bassano, decisi di focalizzare il servizio proprio su questo missionario, dedicando a chi non facendo distinzioni tra religioni, ma guidato solo dall’amore verso il prossimo, ogni giorno si occupa da vero cristiano di questi “ultimi”, sperando che un domani saranno i primi.

Ingresso libero fino a esaurimento dei posti disponibili.

info: www.ideerranti.it

 

 

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