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La Fotografia – Incontro con Gianni Pinnizzotto fondatore di “Graffiti” e Fernando Ferrigno

Presentazione dei libri di Autori Vari/Graffiti: “La Poetica dell’Immagine” e “Urban”.

“La Poetica dell’Immagine”

Una fotografia dovrebbe sempre essere il risultato di una mente, di un cuore, di un’anima, come sosteneva Henri Cartier-Bresson. Un’idea che diventa immagine attraverso uno strumento tecnico, la macchina fotografica, e una serie di scelte consapevoli, tecniche ed estetiche, che al momento dello scatto in sinergia tra loro formano l’immagine, esattamente come il fotografo l’aveva pensata. Questo è quello che ci hanno insegnato i grandi Maestri del ‘900. Ci hanno lasciato in eredità le loro straordinarie fotografie, moltissime delle quali profondamente suggestive, capaci di suscitare in alcuni casi perfino una visione poetica del mondo, quando evocano sogni, fantasie, sentimenti positivi ma anche quando mostrano aspetti drammatici e dolorosi della vita, come la sofferenza e la morte. Se invece analizziamo l’uso che si fa oggi della fotografia, immediatamente ci accorgiamo che, nella maggior parte dei casi, questo senso profondo di ricerca espressiva e di alti contenuti è assente. La superficialità con cui vengono scattate le immagini, la mancanza di un’idea sostanziale alla base di gran parte degli scatti e la straordinaria facilità degli strumenti a disposizione, ci mostrano chiaramente come nella fotografia attuale, quella che ci accompagna ormai da decenni, non è presente quella ricerca, e l’eredità del passato, sia andata perduta. Mentre alla sua nascita, quasi due secoli fa, la fotografia aveva nobili scopi sociali, sia come forma d’arte alternativa alla pittura sia come forma di documento da trasmettere al futuro, funzione che ha mantenuto per quasi tutto il secolo scorso, oggi scattare una fotografia è divenuto purtroppo un atto totalmente meccanico, di assoluta routine, un agire collettivo, un’ansia, una smania che travalica le generazioni, coinvolgendo non solo gli adolescenti ma anche i giovani, gli adulti, gli anziani e i bambini. Privata del suo iniziale scopo, rendere immortale un momento per donarlo al futuro, alla base del quale c’era anche una vera esigenza di trasmissione di bellezza e conoscenza, oggi nella maggior parte dei casi dietro lo scatto c’è solo un desiderio di consumo immediato e superficiale a generare così tante immagini. L’umanità ha prodotto dalla nascita della fotografia fino agli anni ’90 un numero limitato di fotografie. Tutte stampate e spesso conservate gelosamente in appositi album che raccontano, nella maggior parte dei casi, la storia della famiglia nei momenti più importanti. Oggi non solo le fotografie non si stampano quasi più, se ne hanno tantissime, tutte in digitale, riempiono la memoria del cellulare o del computer, sono se non identiche molto simili tra loro, dispersive e riguardano momenti anonimi di singole persone. Quando poi se ne cerca una in particolare, “scrollando” la galleria dello smartphone, spesso non la si riesce a trovare perché nascosta tra le tante altre. Prima dell’avvento della fotografia digitale, il maggior costo delle pellicole, degli sviluppi e delle stampe rendeva necessaria un’attenta selezione dei soggetti da riprendere, dei momenti, delle situazioni, delle pose. Ciò obbligava il fotografo a una maggiore riflessione prima dello scatto, doveva prestare attenzione alla luce, all’esposizione, alla focale da usare, al punto di presa e a tanti altri fattori dei quali era consapevole. Questa consapevolezza giocava certamente a favore della qualità del risultato. I dati segnalati dalla scrittrice Irene Alison nel suo libro “Irevolution – Appunti per una storia della mobile photography” e quelli indicati all’Ansa dal prof. Giovanni Stanghellini, docente del Dipartimento di Scienze Psicologiche, della Salute e del Territorio dell’Università di Chieti, ci dicono che ogni anno si scattano nel mondo circa mille miliardi di immagini, in pratica ogni due minuti si creano più fotografie di quante l’umanità ne abbia prodotte nel ‘900. Di selfie poi, quelli che una volta venivano chiamati autoscatti e si realizzavano con grande attenzione posizionando la macchina fotografica su un cavalletto, utilizzando l’apposito ritardo di circa dieci secondi dell’apertura dell’otturatore, che consentiva anche al fotografo di essere nell’immagine, oggi se ne scattano più di mille ogni secondo, circa novanta milioni al giorno. È una moda, più che una consuetudine, perfino una dipendenza che non ha risparmiato nessuno: politici, attori, cantanti e gente comune. Sono immagini decisamente brutte, i soggetti risultano tutti deformati a causa della breve distanza di presa e dell’utilizzo delle ottiche grandangolari del cellulare. A questa smisurata produzione di immagini, solo alcuni decenni fa inimmaginabile, hanno contribuito in maniera determinante i vari social media, che hanno creato una vera e propria dipendenza nelle persone, generando l’esigenza di essere sempre e comunque presenti nel web. Ma questa rivoluzione culturale, come è facile immaginare, non giova affatto alla qualità delle immagini, a causa sia del mezzo tecnico utilizzato, della poca attenzione nella ripresa, che della scarsa conoscenza del linguaggio fotografico. Queste fotografie sono nella maggior parte dei casi immagini elettroniche prive dei fondamentali elementi di comunicazione visiva e testimoniano molto spesso solo l’esistenza in vita, nel preciso istante nel quale sono state realizzate, delle persone ritratte, senza comunicare nulla, prive di poetica e di forza narrativa. Per queste ragioni vengono dimenticate immediatamente dopo essere state condivise, in un tempo molto simile a quello della loro realizzazione. Lo scopo di questo libro è quello di mostrare che una fotografia diversa, ragionata è ancora possibile. Una fotografia ancora in grado di narrare con un approccio accurato, raffinato ed elegante, in alcuni casi perfino poetico, ciò che ci circonda, che conosciamo bene, che ci appartiene o al contrario che si è materializzato all’improvviso davanti a noi. Una fotografia in grado di cristallizzare quell’istante, fermarlo nel tempo, catturarlo con consapevolezza, studio e passione. Ed è ciò che hanno sperimentato un gruppo di fotografi della Graffiti, dove hanno studiato, approfondito e vissuto il racconto per immagini. Una narrazione consapevole e armoniosa, ispirata dai maestri che si sono distinti dalla nascita della fotografia ai giorni nostri per la loro sensibilità e abilità nel vedere il o i soggetti da ritrarre, la scena dove collocarli o che già abitavano nel momento precedente allo scatto, nel comprendere la luce presente, naturale, artificiale o mista e le sue numerose sfumature, ma anche nel cercare l’approccio più efficace, il dialogo più opportuno con chi era lì, pronto in quel preciso momento a lasciare una valida testimonianza di sé stesso affidandola alla maestria del professionista. È spesso attraverso lo studio delle meravigliose opere di questi maestri che si misura la differenza, l’enorme divario tra quella che il grande Gianni Berengo Gardin, nostro decano, definisce “Vera Fotografia” e la maggior parte delle immagini che oggi popolano il web. Una linea rossa, un solco profondo che rischia di allontanare la fotografia dai fotografi lasciandola solo a chi non ha tempo, voglia e in alcuni casi forse neppure capacità di percepire la differenza tra un semplice scatto e una buona fotografia. La prima è semplicemente una fotocopia della realtà a volte realizzata anche con un’attrezzatura sofisticata e costosa, per citare il fotografo Peter Adams: “Una macchina fotografica non ha mai creato una grande immagine, come una macchina da scrivere non ha mai creato un grande romanzo”, la seconda è una fotografia dove la poetica vi si affaccia forte, dirompente, attraverso la visione di uno sguardo, di un abbraccio, una carezza, una lacrima, una luce magica e avvolgente in grado di rendere il contenuto nobile, bello e infondere attrattiva anche quando tratta temi che toccano stati d’animo e sentimenti contrastanti e repulsivi: la morte, la sofferenza, il corpo umano nella sua vera essenza, nella sua armoniosa nudità. Questo libro vuole stimolare l’impegno a produrre immagini “pensate”. Immagini caratterizzate da una costruzione stilistica, da una poetica che si manifesta attraverso la combinazione di più fattori armoniosamente impressi dalla macchina fotografica: il soggetto, la luce, le ombre, il punto di presa e molte molte altre componenti che concorrono a elevare un’immagine a “vera fotografia”. Questo processo passa attraverso la specifica sensibilità personale di ogni singolo autore mediata dalla condizione effettiva nel momento dello scatto, da quella ambientale, meteorologica, se in esterni, a quella fisica, lo stato d’animo e la capacità tutta personale di una elaborazione tecnico-estetica armoniosa, proporzionata e coerente al punto da poterla definire poetica. Gianni Pinnizzotto “

“Urban”

La ricerca intrapresa dalla Graffiti ha affrontato lo stretto quanto imprescindibile rapporto esistente tra l’uomo e l’ambiente dove vive, dove lavora, dove cerca casa, dove cresce la sua famiglia, e dunque anche il rapporto con tutta quella serie di servizi di cui non può fare a meno e che ogni città urbanizzata dovrebbe puntualmente poter offrire. Il lavoro che ne è seguito è uno sguardo che registra i molti e differenti aspetti del vivere in una metropoli più o meno estesa.  Immagini che mostrano l’essenza della città, un soggetto complesso, dalle molte sfaccettature: strade, edifici, veicoli, uffici, ma anche lo scorrere della vita, la relazione tra le strutture e le persone vero focus del libro, sia nel ricco e progredito nord dove è la modernità a prevalere, sia che si tratti di una megalopoli di molti milioni di abitanti, dove è proprio il peso della enorme quantità di persone che la vivono a determinarne un’urbanizzazione sconsiderata, ma uno sguardo è stato rivolto anche alle città del così detto quarto mondo, dove è la povertà a produrre, potremmo definirla, una non-urbanizzazione e la mancanza dei più elementari servizi, ma solo una mera sopravvivenza complice l’assenza a vario titolo, di politiche adeguate. La città è in continua trasformazione. Nello stesso preciso istante in un quartiere si costruisce mentre da altre parti si sta demolendo un edificio, una vecchia fabbrica, dei silos arrugginiti. Cantieri aperti per qualcosa che potrebbe restare incompiuto, è già successo, nel migliore dei casi alla ricerca di miglioramento, quando non per solo speculazione. Chi ha il compito di documentarla, non ha mai la sensazione di una città definitiva perché tutto ciò che viene costruito prima o poi sarà demolito. Si demolisce e poi si ricostruisce nella convinzione di risolvere problemi di spazio, di viabilità o di estetica, in alcuni casi per abbellire lo Skyline, come affermava il noto fotografo canadese, Norman Snyder che nelle sue riflessioni, mentre cercava di documentare New York, si poneva il quesito: costruire edifici sempre più alti fa dell’uomo un essere più civilizzato? Inoculando questo dubbio in tutti noi. I nuovi quartieri avanzano confrontandosi o meglio sarebbe dire scontrandosi con l’esigenza di spazi verdi di cui abbiamo bisogno. L’evolversi dei materiali da costruzione, dal calcestruzzo, al cemento armato, al ferro, all’acciaio e al vetro dei moderni edifici, mutano i nostri orizzonti e spesso dividono nettamente le città. I nuovi mezzi di trasporto individuali poi, da alcuni anni in commercio, biciclette motorizzate, monopattini elettrici, i vari servizi di car-sharing, e l’abitudine sempre maggiore di acquisti online perfino di cibo, hanno generato nuove forme di lavoro, purtroppo assai precario, che irrompono nella quotidianità inondando, in maniera caotica le strade, incrementano le doppie file, occupando spesso anche i marciapiedi, passi carrabili, piste ciclabili, scompaginando la normale viabilità. Dalla mobilità alla scuola, dalla sanità allo svago, una metropoli urbanizzata dovrebbe essere in grado di soddisfare tutte quelle esigenze primarie che una moderna città deve poter offrire, tenendo bene a mente che per città s’intende in genere un gruppo piuttosto ampio di individui, insediati stabilmente in un determinato territorio, non più stretto dentro mura di cinta come succedeva fino al medioevo. Con l’industrializzazione le città si sono espanse da un centro protetto e ben organizzato verso l’esterno divenuto subito periferia e sinonimo di degrado. L’urbanesimo è il processo mediante il quale si è in un luogo definito “città” dove si acquisiscono anche comportamenti riconosciuti come urbani, civili, per permettere ad un numero sempre maggiore di persone, di poter vivere e socializzare in sicurezza e serenità. Oggi però, purtroppo, analizzando i tratti distintivi dei normali comportamenti delle persone che vivono la città e il senso civico del vivere, molti di essi sono decisamente di segno negativo e rendono assai difficile una tranquilla convivenza sociale. I valori che in altra epoca erano il collante del vivere, primo tra tutti l’educazione, ai nostri giorni, in questo contesto storico,in una società evoluta, sfilacciata nel suo tessuto sociale, sono spesso sostituiti da comportamenti che potremmo definire opposti, aggressivi, che generano tensione, isolamento, anonimato, quando non sfociano in vera e propria violenza, complice la forte spinta individualista, dovuta a numerosi fattori, che si è registrata negli ultimi venti anni. Non esiste quasi più l’antica funzione della piazza, intesa come luogo di aggregazione, di scambio di idee, di progettualità, di vicinanza. Raro anche il rapporto tra vicini di casa, spesso non si va oltre un frettoloso “buon giorno e buona sera” o le classiche discussioni alle assemblee condominiali. Anche l’urbanizzazione poi ha disatteso le sue principali funzioni. I soggetti che risiedono nelle città moderne sono sottoposti ogni giorno a vari tipi di stress: traffico, inquinamento, scarsa manutenzione delle strade, sevizi pubblici non adeguati alle richieste. Tutto ciò genera un atteggiamento spesso di indifferenza nei confronti dell’altro, prevale l’individualismo e l’esigenza personale, ci si ferma sempre più raramente ad aiutare chi è in difficoltà, anche solo ad assistere un anziano ad attraversare la strada o a cedere un posto a sedere sul mezzo pubblico. Così rivolti su noi stessi non ricordiamo che fino a qualche tempo fa i contatti tra persone erano di carattere più amichevole. La città è la sede privilegiata per le attività economiche che producono beni ed erogano servizi. È anche la sede principale o secondaria delle attività politiche che ne determinano in grande misura il funzionamento e la divisione della società in classi e quella territoriale: centro e periferie. Anche il rapporto con l’ambiente e la sfera ecologica è strettamente collegato alla politica in quanto dipende quasi esclusivamente dalle sue scelte. Così come la vocazione culturale. La città dovrebbe essere un luogo di incontro, di scambio, di confronto e di convivenza tra culture e stili di vita differenti dei diversi gruppi sociali, etnici e religiosi che la abitano. È il luogo dove sono maggiori le opportunità di accrescimento personale di ricchezza e di potere. Ma è anche un luogo dove più emerge la competizione. Le persone sono spinte soprattutto dai mass media, specie dalla pubblicità, a trasformarsi da cittadini in  consumatori seriali, generando frustrazioni, che spesso tendono ad accentuare i contrasti specie tra chi si ritiene abitante legittimo e chi invece è giunto da altri “luoghi”. La ricerca di Graffiti che ne è scaturita, frutto del lavoro di trentaquattro fotografi con sensibilità, visione, percezione differenti, non può avere la pretesa di essere esaustiva tantomeno di aver potuto cogliere e sottolineare tutti gli aspetti, negativi o positivi, del vivere in un ambiente antropizzato, nel gergo comune definito “ambiente urbano”, la città. Bisogna però tenere bene a mente che l’immagine fotografica è la visione assolutamente personale del fotografo, condizionata dall’esperienza, dall’emozione, dal suo individuale modo di vedere, capire, giudicare, dallo stato d’animo al momento dello scatto che condiziona anche il punto di presa e determina quindi la porzione di realtà che andrà a mostrare, che inevitabilmente ne annullerà un’altra e che inoltre non esistono rigide leggi universali che regolano la gestazione di un’immagine. Uno studio serio e completo dell’ambiente urbano avrebbe bisogno di essere analizzato non solo fotograficamente ma in tutte le sue componenti. Solo prendendo in esame le scienze sociologiche dovremmo scomodare: l’antropologia, l’etnografia, la psicologia sociale, la psicologia ambientale, l’ecologia, la demografia e quindi anche la geografia, la sociologia del territorio, l’urbanistica, l’architettura. Ma anche l’economia, il diritto, le scienze politiche e amministrative e inoltre la storia, la semiotica, e l’informatica. Tutte queste materie rientrerebbero a pieno titolo in un piano di studi che voglia occuparsi seriamente e in maniera esaustiva dell’ambiente urbano: la città e chi la abita. L’urbanizzazione, come ci insegna Alfredo Mela, ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio, è infatti la rappresentazione dell’organizzazione sociale di una città, è la principale fonte di innovazione e il luogo dell’osservazione dell’evoluzione sociale. La città moderna, ad esempio, molto spesso è soggetta ad un sovraffollamento di utilizzatori: residenti, lavoratori, pendolari, immigrati, turisti, ecc. e le conseguenze sono spesso negative. Generano disagio, insicurezza, problemi di ordine pubblico, di smaltimento rifiuti, in alcuni casi di cattive condizioni igieniche, di traffico, di inquinamento, quindi aumento della devianza e dell’aggressività e della povertà. Solo un esempio di ciò che si potrebbe fare: Vincente Guallart, urbanista e ricercatore spagnolo, uno degli esperti mondiali di sviluppo urbano ecologico, ci mostra come in risposta a queste criticità la città di Barcellona sta lavorando da alcuni anni ad un progetto che appare alquanto utopico se guardato qui, da Roma. Si sta pianificando “la costruzione di una città autosufficiente, formata da quartieri produttivi, a velocità umana, all’interno di una città intelligente a zero emissioni”. Il progetto si propone di apportare quelle modifiche, oramai ineludibili, che sono il lascito dell’era industriale, città che per vivere sono costrette ad importare beni e generano rifiuti, hanno quartieri separati, alcuni prevalentemente destinati al lavoro altri dormitorio. La città del futuro non dovrebbe più avere un centro ricco e una periferia povera, ma dovrà essere una metropoli fatta di quartieri interconnessi. Non dovrebbe più essere solo luogo di isolamento individuale e di scelte urbanistico-organizzative piovute dall’alto, ma dovrebbe divenire luogo di opportunità, di esperimenti sociali, di un possibile rilancio di una partecipazione reale alla vita delle comunità che la vivono. Una città con un obiettivo duplice, economico e sociale, in cui le persone sono al centro del progetto. Infatti solo la partecipazione dei cittadini alle principali decisioni urbanistiche può diventare un antidoto alla perdita di fiducia nella democrazia rappresentativa. Nonostante l’enorme complessità del tema trattato, la “lettura” di questo libro e l’attenta visione delle molte immagini che lo compongono, potrà aiutare a far emergere e sottolineare alcuni importanti aspetti della realtà urbana e del suo vivere. Non solo quella che conosciamo e viviamo giornalmente, ma offre anche uno sguardo ad altre urbanizzazioni, quelle di alcuni altri paesi, mostrandone le caratteristiche differenti certamente più afferenti alla cultura di appartenenza di quelle popolazioni, e essere, lo speriamo, di stimolo alla ricerca di una “urbanizzazione ideale”. Gianni Pinnizzotto.

 

Gianni Pinnizzotto, fotoreporter dal 1970 e giornalista dal 1984, è Presidente dell’Associazione Graffiti, Direttore della Scuola di Fotografia Graffiti e dell’Agenzia fotogiornalistica Graffiti Press. Ha collaborato con alcuni dei maggiori quotidiani nazionali (La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Messaggero, L’Unità, Paese Sera, Il Manifesto), con importanti settimanali (L’Europeo, L’Espresso, Panorama, Famiglia Cristiana) e con periodici specializzati nel settore della difesa (Defence today, Informazioni della difesa, Flap, Quadrante). Ha realizzato numerosi reportage (Albania, Algeria, Argentina, Cambogia, Canada, Cina, Colombia, Cuba, Egitto, Emirati Arabi, Francia, Giordania, Grecia, Gran Bretagna, India, Israele. Irlanda, ex Jugoslavia, Laos, Libano, Malesia, Marocco, Myanmar, Palestina, Portogallo, Perù, Siria, Somalia, Spagna, Thailandia, Turchia, USA, Vietnam) approfondendo i temi della guerra, della povertà e della ricostruzione nei paesi caratterizzati da situazioni politiche instabili. Nella sua lunga carriera ha fotografato gli ultimi tre Papi, diversi Presidenti della Repubblica italiani e stranieri. Parallelamente alla sua attività di fotoreporter e giornalista, ha sviluppato negli anni il desiderio di trasmettere ai giovani la sua passione ed esperienza professionale. Una vocazione che lo ha condotto a dedicarsi via via sempre più all’insegnamento della fotografia. Nel 1990 ha fondato Graffiti, formando in tutti questi anni oltre 5.500 allievi, rendendola oggi un’eccellenza e un punto di riferimento per lo studio della fotografia analogica e digitale. Ha tenuto corsi di aggiornamento professionale in Italia e all’estero e per Fondazioni, Enti e Istituzioni tra i quali l’Alitalia, l’Esercito Italiano, la Presidenza della Repubblica. Dirige numerosi workshop nel mondo per far approfondire sul campo le tematiche del reportage sociale, naturalistico e di viaggio ai partecipanti (soprattutto nel Medio e lontano Oriente e in Perù). Dal 2004 è il Direttore Artistico della Casa Editrice Graffiti che ad oggi ha realizzato 30 libri di fotografia di grande qualità di cui molti hanno vinto prestigiosi premi internazionali.

Fernando Ferrigno, giornalista, inviato del TG3, laureato in Filosofia (tesi storica con Renzo De Felice). Per più di trent’anni ha curato trasmissioni culturali (“Bell’Italia”, “Notte e Cultura”, “Sabato Notte”), ha seguito tutti i grandi restauri del Foro Romano, della Cappella Sistina, del dopo terremoto ad Assisi, con speciali e approfondimenti che hanno riguardato anche la tutela del nostro immenso patrimonio artistico. A Federico Zeri lo ha legato una grande amicizia e una collaborazione che gli ha consentito di ricostruire avvenimenti di grande impatto mediatico.